Il grande silenzio (Philip Gröning, D/CH, 2005)

Il film si presta benissimo a un vecchio progetto dell’amico Manu, cioè le recensioni "alla maniera di". Per esempio, potrei fare una recensione alla Marco Lodoli e raccontarvi che, quando ero alle scuole medie "Gino Custer De Nobili" di S. Maria a Colle (tutto vero),  lì vicino c’era e c’è tuttora la Certosa di Farneta. Una delle quattro rimaste in Italia: si vociferava che vi si fosse rifugiato Ettore Majorana dopo la sua misteriosa sparizione. Oppure potrei lanciarmi in un omaggio al defunto pickpocket.it e tentare di dimostrare, con qualche ragionevole appiglio, che Il grande silenzio (2005) di Philip Gröning è il remake antinarrativo de Il grande silenzio (1967) di Sergio Corbucci, western ascetico e innevato.
La storia produttiva del film è abbastanza nota: il regista
Philip Gröning ha atteso più di dieci anni il permesso di risiedere alla Grande Chartreuse, la casa madre dell’ordine fondato da San Brunone. Alla fine il permesso è arrivato e Gröning ha trascorso sei mesi coi monaci certosini, vivendo come loro e filmandoli notte e giorno. La pellicola ha avuto un gran successo in Germania e anche da noi la media incassi/sale è parecchio buona, nonostante una distribuzione non proprio impeccabile. Molti spettatori, forse, si aspettano una specie di film inchiesta, del tipo: "Padre Pierre, quanto le manca la sua famiglia?", in realtà Il grande silenzio è tutta un’altra cosa, quasi il contrario di un documentario.
L’intromissione della macchina da presa negli spazi della più rigida tra le regole cattoliche non serve al regista per mostrare qualcosa che esiste.
Gröning non va alla ricerca del nuovo o dell’insolito: in qualche modo se li trova davanti e li ripete continuamente. Gli stessi gesti (tirare la corda per suonare le campane, preparare la legna per l’inverno) o le stesse citazioni bibliche in bianco su fondo nero scandiscono un tempo la cui ragione non si trova nello svolgersi degli eventi. Ciò che accade è talmente banale che può essere anche riproposto. "Sono solo segni", dice un padre a un certo punto riferendosi alle prescrizioni della regola, "ma se non ci fossero i segni non ci sarebbe neanche il senso". La trascendenza, la volontà che va oltre l’umano e l’esistente non può essere, per definizione, mostrata. E il film si sforza di rappresentarne il riflesso: la volontà umana, l’incontro pieno di amore con i propri simili (la sequenza del pendio innevato è quanto meno toccante). Alla fine, il film risulta assai più divulgativo e meno cattolico di quanto non lo sia abitualmente il cinema cattolico (Bresson, Pasolini, Ferrara…), perché al suo centro non pone il momento di salvezza, la Grazia, ma la scelta umana, continuamente rinnovata e comunque misteriosa.
Ad ogni modo, quasi tre ore di film, praticamente senza dialogo, sono davvero tante…
p.

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