Rabbit Hole, John Cameron Mitchell, 2010

Presentato alla Festa del Cinema, dei Film(s) e della Settima Arte Capitolina di Roma, ecco che arriva sui nostri schermi Rabbit Hole, di John Cameron Mitchell, l’autore di Shortbus (nel 2006 Manu ne aveva scritto qua).
Mitchell ha preso una premiatissima pièce di David Lindsay-Abaire, ha chiesto al suo autore di trarne una sceneggiatura e l’ha messa in scena. I Corbett (Becca, Nicole Kidman, e Howie, Aaron Eckhart) hanno perso da poco il figlioletto, investito da una macchina davanti a casa e davanti agli occhi della madre. Li conosciamo quando sono passati otto mesi dal dramma e non è che i due stiano benissimo. Becca non lavora, Howie sì, ma guarda i filmati che ritraggono il figlio per ore. Sesso, ovviamente, neanche a parlarne. La sera i due vanno ai gruppi di ascolto e condivisione per genitori che hanno perso i figli. Insomma, una vita di coppia che va verso la distruzione, come spesso capita ai genitori che perdono un figlio.
Mitchell è, diciamolo subito, totalmente asservito al testo e agli attori: il che è ottimo, considerando la buona fattura del materiale di partenza e le grandi doti del cast. Riesce a far sì che il dolore sia trattenuto, che lo mostri come parte di un quotidiano da accettare, per quanto sia insostenibile. Gioca con i mezzi toni, con la costruzione non immediata e didascalica delle relazioni e non si allenta in soluzioni facili, almeno fino agli ultimi venti minuti di film.

Seguiamo anche due “sbandate”, comprensibili e umanissime, dei protagonisti: non vi diciamo di più, ma anche in questo caso tutto tiene bene sulla scena, grazie agli attori che reggono la parte: o meglio, tutti gli attori tranne la Kidman. Apriamo una parentesi. Leggo, su questo film, solo cose come “Kidman da Oscar”, “Superlativa Kidman”, e non capisco. Nicole, ormai rovinata dal botulino, ha due espressioni, in Rabbit Hole: criceto triste e criceto arrabbiato, forse per affinità con il roditore menzionato nel titolo. Tutti gli altri, invece, sono superlativi: in primis il grandissimo Aaron Eckhart, eccezionale nel non lasciarti mai capire se sta per esplodere definitivamente o se sta per cominciare da solo un lento recupero. Una ritrovata Dianne Wiest, nei panni della madre di Becca, ossessionata dalla morte di un figlio anche lei, ma fondamentalmente considerata una scema mezza alcolizzata dalle figlie. E Miles Teller, nei panni di Jason, l’adolescente che ha investito il piccolo, con la faccia di un Belushi giovane e triste, perfetto adolescente che tenta di andare avanti nonostante sia stato travolto da qualcosa di più grande di lui.

L’impianto teatrale si nota, certo, soprattutto quando si vede che l’autore dello script non ha avuto il coraggio di abbandonare certi dialoghi che funzionano, ma è evidente come siano stati presi pari pari dal copione originale alla voce “scena importante!”. Tuttavia si passa oltre, perché, alla fine, sono scene scritte bene. Ecco: ci sono buoni attori, un buon testo, una regia di servizio, ma alla fine funzionale. Mitchell ci ha messo del suo nella preparazione del film, costringendo i due protagonisti a vivere davvero insieme, condividendo lo stesso bagno (cosa che la Kidman ha detto in più interviste: chissà che fa Eckhart in privato…). La cosa, che sa molto di “metodo”, funziona: si nota un’ottima complicità (per modo di dire) proprio con la freddezza con cui lei saluta il marito quando torna a casa. Piccoli particolari che però rendono, se tenuti da conto.
Cosa c’è di sbagliato allora in Rabbit Hole? Quasi niente, direi, se non un momento, verso la fine, in cui qualcuno (Mitchell? Lindsay-Abaire?) ha avuto paura. Paura che la tensione palpabile avesse bisogno come sfogo del suo punto di origine: e quindi, seppur con pudore, siamo costretti a vedere la scena dell’investimento del piccolo Danny, con tanto di primo piano botulinico della Kidman disperata. E’ buffo: quando lo vedi ti viene voglia di avere la pellicola in mano e… zac! zac!, tagliare via quei tre minuti di film.
Comunque, alla fine rimane qualcosa, dopo la visione: se non altro il coraggio di portare in scena un film che mantiene una struttura rigida in tre atti, ma che non è mai consolatorio. Un film che fronteggia il dolore ponendolo come inevitabile, creando così un curioso meccanismo di identificazione del testo con i suoi personaggi. Ho già detto che Aaron Eckhart è eccellente?

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2 Comments

  1. Seppia
    Posted 25 febbraio 2011 at 02:37 | Permalink | Rispondi

    Oh ancora non l’ho trovato un post di sto blog con cui sono d’accordo, ma le mie sono opinioni e le opinioni sono come le supposte. Rabbit Hole l’ho trovato lento, pedante, una carrellata sull’american way del lutto. Due stili di coping al limite del surreale. L’unica che si salva è la madre, loro due hanno decisamente solcato il limite della nevrosi isterica da vecchia zitella. Se c’è un film che non merita le candidature all’oscar, quello è proprio Rabbit Hole.

  2. Francesco
    Posted 5 marzo 2011 at 15:58 | Permalink | Rispondi

    “Stili di coping”?
    No, ti prego.

4 Trackbacks

  1. By Vitaminic – Tra lutti, ghetti e matti on 16 febbraio 2011 at 17:20

    […] Abbiamo iniziato con Rabbit Hole, di John Cameron Mitchell: Nicole Kidman e Aaron Eckhart hanno perso da poco il figlioletto e il lutto li sta distruggendo. Una grande prova di Eckhart, nonostante la Kidman sia sulla bocca di tutti. Non male: ne abbiamo parlato anche sul nostro blog. […]

  2. […] Nicole Kidman per Rabbit Hole […]

  3. […] “omaggiare” fondamentalmente fregandogli l’incipit, ma non sapevo cosa scegliere tra questa, questa e questa. Quindi mi trovo punto e accapo e a dover utilizzare questo mezzuccio banale e […]

  4. […] Pannofino per Boris – Il film – Michel Piccoli per Habemus Papam – Aaron Eckhart per Rabbit Hole – Jesse Eisenberg per The Social Network – Olivier Gourmet per Venere […]

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