Eccolo infine il film più scandaloso dell’anno, quello che avrebbe dovuto mostrare al mondo la nudità integrale di Michael Fassbender e illanguidire sensi ed occhi con il godimento di un erotismo sfacciato, e titillante le più segrete fantasie. E invece l’opera da censurare per eccellenza di questo anno cinematografico, Shame, lungi dall’essere un nuovo ultimo ballo o tango, ha molto più dell’angoscia esistenziale del moralismo alla Rohmer che dell'”esasperato pansessualismo fine a se stesso” bertolucciano. Il protagonista Brandon (il nostro Fassbender) è un uomo di fascino che dietro alla facciata di una vita agiata e tranquilla, solo venata da un’ombra di diffidenza costante nel suo sguardo, nasconde una dipendenza sessuale da erotomane disperato, ed è incapace di vivere il rapporto amoroso e sessuale se non come merce da acquistare, consumare e digerire quanto più in fretta possibile, espellere e defecare in solitudine, dimenticare in fretta, non senza un profondo senso di vergogna. La sorella Sissy (Carey Mulligan) è una creatura fragile e disperata, affamata di un amore che svende a poco prezzo, che si aggrappa disperata al senso di famiglia ed appartenenza che il fratello dovrebbe per lei incarnare, mentre Brandon è incapace di assumersi la responsabilità di un affetto. Ma il suo dramma è proprio in questo rifiuto del contatto reale, che allontana come debolezza, senza che a questo si sostituisca la piena accettazione del suo essere chiuso nella propria ossessione erotica, che in ugual modo respinge. Intorno a loro una New York grigia, a tratti illuminata dalle fredde luci al neon della notte: la città che non dorme mai, che “se posso farlo qui posso farlo ovunque” è in realtà, per i due fratelli irlandesi, il supremo concretizzarsi della spersonalizzazione. La meta, certo, la città in cui potersi anche perdere e passare inosservati a fare cose che in altri contesti non sfuggirebbero all’attenzione, ma pure il luogo per eccellenza dell’alienazione e della solitudine. Come nel precedente, bellissimo, Hunger (le ultime sei settimane di vita in carcere dell’attivista irlandese Bobby Sands, interpretato dallo stesso Fassbender), McQueen usa piani sequenza lunghissimi come vere e proprie prove fisiche sull’attore, dal primissimo piano di Carey Mulligan in una versione struggente, lentissima di New York, New York al volto contratto dallo spasmo dell’amplesso orgiastico di Fassbender. Una violenza che trasforma il sesso consumato sullo schermo nel contrario della forza vitale della pulsione erotica, allontanando ogni morbosità e avvolgendo tutto in un soffocante senso di disperazione, con la distruzione totale di ogni desiderio dell’epoca del consumo di massa. Menzione d’onore più che a Fassbender, che pure è bravissimo e si è senza dubbio meritato la Coppa Volpi a Venezia, ad una colonna sonora che dosa con straordinaria carica emotiva le Variazioni di Goldberg di Glenn Gould e Blondie, John Coltrane e Chet Baker. Ma soprattutto a Carey Mulligan. Che è cresciuta, ed è bravissima, ed è il vero cuore pulsante del film: bambina disperata, bionda platino à la Marylin, capace di commuovere e scuotere con la sola piega degli occhi. Una benedizione.
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Ogni martedì dalle 22.30 alle 23.30 su Città del Capo Radio Metropolitana
96.3 e 94.7 MHz - Bologna, e in streaming. -
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