I due tempi dell’ultimo film di Carlo Verdone sembrano scritti e diretti da persone completamente diverse. La storia di tre cinquantenni divorziati e falliti, ognuno a modo suo, che sono costretti a condividere un appartamento, viene infatti presentata molto bene. I tre caratteri (Verdone – Ulisse, un ex produttore che tenta di campare con un negozio di vinili rari, Favino – Fulvio, un ex critico cinematografico costretto alla cronaca rosa, Domenico – Giallini, un agente immobiliare col vizio del gioco che si prostituisce con anziane signore per arrotondare) diventano subito familiari: ma anche in questo set-up ben costruito c’è in un momento l’ombra della sciatteria, in una scena telefonatissima “necessaria” per riassumere al pubblico le biografie dei protagonisti. Ma si passa oltre, soprattutto perché Giallini e Favino sono davvero bravi. Se il primo è una conferma nella capacità di rappresentare una sorta di “gallo cedrone” leggermente meno grottesco, il secondo riesce bene (con qualche tecnicismo attoriale evidente, ma tollerabile) nell’impersonare questo omino sfigato, nervoso e non particolarmente simpatico. In questi due caratteri, inoltre, la tristezza che la sceneggiatura firmata dal regista, da Maruska Albertazzi e Pasquale Plastino, vuole infondere in quasi tutti i personaggi del film, attecchisce bene.
Non si può dire lo stesso per il personaggio di Verdone che delega, per così dire, due delle sue maschere (il timidone e il coatto) ai suoi colleghi, lasciando per sé “il solito Verdone”, appassionato di musica, dal cuore grande, mediamente imbranato con le donne. La donna in questione è una cardiologa, Gloria, interpretata da Micaela Ramazzotti, che si innamora un po’ di Ulisse: i duetti funzionano bene e alla Ramazzotti riesce questo personaggio svampito, triste e solo. Tremendo, invece, è il modo in cui (dalla prima videochiamata) Verdone ci racconta il rapporto con sua figlia: è chiaro che è a questa sottotrama (e soprattutto ai suoi sviluppi) che viene affidato il lato “speranzoso” del film. Ma la “collosità” di questa parte invade, nel secondo tempo, tutto il film: dopo una scena di festa in cui davvero il film funziona, e ne si è felicissimi, arriva il momento di chiudere i conti. E Posti in piedi in Paradiso scivola nella banalità. Sia per la sceneggiatura, che infila svolte prevedibilissime e battute davvero poco riuscite, sia nella regia: il film, nell’ultima parte, si trasferisce a Parigi e Verdone (che è stato bravo a mostrare una Roma poco vista, fatta di zone residenziali ricche e povere) sembra costretto a mostrarci i lati più scontati della metropoli francese. Lunghe inquadrature panoramiche su vedute dall’alto di palazzi e boulevards, torre Eiffel ripresa da ogni lato e i mercatini di libri sulle rive della Senna. Sembra quasi che, dopo averci fatto ridere e averci ben intrattenuto, mostrando anche squallore e miseria (declinate secondo gli echi della commedia italiana del tempo che fu, da sempre presa come riferimento da Verdone), l’autore romano si costringa a rassicurarci tutti, visivamente e narrativamente. E il film, mano a mano che va verso la conclusione, perde i punti guadagnati nella prima parte, in effetti davvero riuscita. Peccato.
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