Gozu, di Takashi Miike, 2003

Lo so di arrivare dopo la puzza, come si suol dire, ma sai mai che qualche lettore del blog non abbia mai visto Gozu, uno dei tanti titoli della corposa filmografia di Takashi Miike. Da molti cultori di cinema nipponico, Gozu è considerato il miglior film del regista. Non sono certo di questo giudizio, ma di sicuro è uno dei suoi lavori più liberi e scatenati, probabilmente per le sue vicende produttive. In breve, è stato scritto da Sakichi Sato (che appare anche come attore in Kill Bill) direttamente per il mercato home video: Miike, però, ha molto improvvisato durante le riprese, svolte in sole tre settimane, talvolta considerando lo script originale come un mero canovaccio per l’azione.

La storia che narra Gozu è davvero folle: un affiliato alla yakuza inizia a dare fuori di testa. I capi decidono di farlo fuori, e incaricano del compito un “fratello” più giovane. Colui che deve essere eliminato, però, scompare, lasciando il povero Minami in guai seri, aggravati dalla parata di personaggi e situazioni assurde che incontra. Tra baristi che indossano reggiseni, avventori che parlano solo del tempo atmosferico, negozianti americane che leggono il giapponese da cartelli enormi, le immancabili scene di allattamento di Miike, uomini con la testa di mucca e un “parto” davvero ai confini del sostenibile, il film è davvero una sarabanda scatenata, dove si mischiano suggestioni tratte dal patrimonio visivo giapponese (manga e cinema, prima di tutto) a evidenti richiami a Lynch: le cittadine giapponesi in cui il film è ambientato ricordano, soprattutto per gli abitanti che ci vivono, i sobborghi lynchiani. Ma evidenti richiami al cinema dell’americano ci sono anche nei luoghi non alla ribalta, i vicoli dietro i ristoranti, le uscite secondarie, in cui prendono forma incubi e dialoghi allucinati. Il senso di oppressione è percepibile durante tutto il film, sapientemente mischiato con alcuni paletti che, come nella migliore tradizione lynchiana, appunto, sfruttano il meccanismo di riconoscibilità e contemporanea deformazione del reale che è alla base del racconto fantastico.

C’è anche, per fortuna, una buona dose di umorismo, che però non tende a stemperare ciò che si è visto, ma si affianca agli altri umori del film. Il senso che rimane di più è quello del disturbo: Gozu dà fastidio, divertendo e schifando allo stesso tempo. Insomma, sono due ore toste, ma ne vale la pena.

IMDB | Trailer

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